Con lo stress, infatti, oltre alle dinamiche psicologiche che intercorrono, il nostro corpo tende a far fronte alle richieste interne e ambientali secondo un principio omeostatico e questo lo notiamo in ultimo attraverso un’alterazione del respiro. Potrebbe spiegarsi in questo senso il motivo per cui il primo episodio di panico sembra accada senza alcun motivo evidente nell’attimo in cui si superino alcuni valori soglia, lo studio del falso allarme di Donald Klein (cit. in Disturbo di Panico: dalla Respirazione al cervello omeostatico) ne spiega le dinamiche.
La differenza della percezione individuale e le caratteristiche psicologiche di quella persona poi in quel momento fanno il resto e ne determinino gli sviluppi successivi, attraverso schemi e ristrutturazioni cognitive errate (à inserire le teorie di riferimento). Per questo motivo sono messe a confronto due situazioni particolari che richiamano un collegamento con quanto appena esposto, correlate alle due variabili ansia e iperventilazione, in base alle quali sembra sia maggiormente probabile l’insorgere di un attacco di panico. Gli eventi presi in esame si verificano uno in alta quota, l’altro durante le alte temperature estive (con maggior frequenza in città, dove lo smog incide significativamente in maniera ulteriore).
Già dalle quote medie, in montagna, in un soggetto sano si evidenziano fenomeni di adattamento dovute alle diverse caratteristiche fisiche come la diminuzione della pressione atmosferica (con relativa diminuzione di gas vitali all’organismo). Ne consegue uno sforzo maggiore per ogni attività che egli voglia intraprendere. L’atto respiratorio è incrementato già a riposo per il solo sforzo che l’organismo compie per adattarsi in quota e questo vale in maniera amplificata se si aggiungono sforzi man mano di entità maggiori. I meccanismi che l’organismo mette in atto in questi casi causano iperventilazione, aumento della pressione arteriosa e tachicardia. Si pensi quindi da un lato la predisposizione a una crisi di panico in alta quota e dall’altro la fatica immane per l’organismo e per la psiche stessa rispetto a quanto già avvenga ad altitudini modeste.
La cosa che viene naturale pensare è che se per tutti valgono più o meno i stessi principi situazionali (in questo caso l’abbassamento della pressione atmosferica e le altre condizioni climatiche) non tutti però hanno stesse soglie di reazione ed è qui che giocano un ruolo la percezione soggettiva, le condizioni mediche, costituzionali e psicologiche soggettive. Si deduce che si può avere una diversa risposta avanti allo stesso fenomeno e che un attacco di panico potrebbe scaturire come non scaturire.
Ma è pur vero che se da un lato l’iperventilazione può determinare malessere e angoscia e innescare un attacco di panico, allo stesso modo un attacco di panico peggiora di gran lunga l’attività respiratoria, fino a livelli in cui, alimentandosi a vicenda, il ph del sangue subisce variazioni tali da indurre ad alcalosi respiratoria. Quest’ultima infine potrebbe poi giocare un ruolo importante, considerati i sintomi, nel condizionamento della paura che se non rielaborata in maniera funzionale può far si che il soggetto possa sviluppare successivamente disturbi di rilevanza clinica (dp, agorafobia, ipocondria, fobie semplici ecc)
Il fatto che ad altitudini elevate si possa intercorrere in un attacco di panico potrebbe esser dedotto dal fatto che molte persone che non hanno tra l’altro mai avuto episodi di attacchi di panico improvvisamente ad alta quota si sentono male. Questo fenomeno sembra ricordare seppur in ambiente diverso un meccanismo simile che accade ad esempio con maggior probabilità nelle grandi città, in estate, con alti tassi di smog, umidità e temperature elevate quando le persone di solito espediscono il loro primo attacco di panico.
In questi due casi il comune denominatore che fa “scattare” la risposta sembrerebbe in ultima analisi prettamente fisiologica, seppur mediata e alimentata anche dalla componente interpretativa del soggetto in quel momento attento alle variazioni fisiologiche dove ognuno è più o meno sensibile a determinate soglie. Il respiro (seppur in maniera inconsapevole) sembrerebbe determinare con buona probabilità lo scatenamento di un attacco di panico sia in caso di afa e umidità in città, sia in alta quota dove la pressione atmosferica, l’umidità e le temperature diminuiscono. Due fenomeni se vogliamo diversi e anche a tratti opposti ma accomunati da uno squilibrio respiratorio portano a reazioni simili.
A questo riguardo infatti già tempo fa son stati evidenziati studi che dimostravano una sensiblità particolare all’inalazione di aumentate concentrazione di anidride carbonica allo sviluppo di una crisi di panico ma che poi son state contraddette attraverso studi che dimostravano che in realtà non vi fosse collegamento tra inalazione di Co2 e crisi di panico con persone con DP o meglio che “nessuna differenza significativa nella chemosensibilità o nella soglia chemocettiva è stata trovata rispetto ai soggetti sani”. Inoltre hanno concluso che “se esiste un falso allarme di soffocamento potrebbe essere innescato da meccanismi diverso rispetto alle vie della chemosensibilità” (Katzman et co. cit. in Disturbo di Panico: dalla respirazione al cervello omeostatico).
A rinforzare questa teoria ci son anche studi di imaging morfologico con risonanza magnetica che non dimostrano anomalie cerebrali morfologiche o morfometriche nelle persone con DP (Drevets e Charney cit. in Meldolesi) ma che ci sia invece una correlazione tra attacco di panico e vasocostrizione a livello cerebrale indotti dall’iperventilazione o dall’ipocapnia (Sadock cit. in Meldolesi)Da quanto analizzato quindi si deduce una certa controversia rispetto a studi che indicano correlazioni positive tra attacco di panico e maggiore Co2 inalata e al contrario studi che indicano relazioni tra attacco di panico e minore afflusso di Co2.
Alla luce di quanto esposto quindi
- Diversi studi ipotizzano e dimostrano una correlazione positiva tra l’insorgenza di un attacco di panico e un’alterazione dell’attività respiratoria, seppur controversi
- Ci sono situazioni specifiche come quella in alta quota e quella estiva che sembrano predisporre a condizioni che inducono con maggior probabilità a un attacco di panico e a crisi ventilatorie
- L’attacco di panico con sindrome di iperventilazione associata, procura una sintomatologia importante rispetto al solo attacco di panico, la quale tendendo ad essere autoalimentata a vicenda dalle due crisi, induce comprensibilmente a un trauma maggiore e quindi a un apprendimento condizionato della paura e in condotte di evitamento.
Per tutti questi motivi si intuisce che il dialogo interdisciplinare è fondamentale e necessario per una corretta individuazione del problema innanzitutto e non per ultimo per apportare miglioramenti nella prassi clinica per quanto riguardano le offerte terapeutiche
indirizzate alla persona colpita. Non va confusa però l’eziologia ad esempio di un singolo attacco di panico con quella degli eventuali sviluppi successivi in disturbi ansiosi seppure da un lato lo studio dei fattori che incidono in un attacco di panico con base fisiologica può spiegare meccanismi utili alla comprensione per lo sviluppo di nuove tecniche e metodologie di aiuto durante una crisi ma altrettanto importanti e
purtroppo spesso sottovalutate sono le azioni dirette alla prevenzione e l’accessibilità al sostegno psicoeducativo che possono fare la differenza in caso di trauma come spesso accade ad esempio durante il primo attacco di panico.
Uno stesso sintomo può avvenire secondo modalità e cause differenti e sviluppare problematiche successive anche indipendenti dalla sua modalità di insorgenza. Per questo è molto importante che la persona possa essere in condizione di comprendere il suo disagio sin dal primo sintomo (che spesso la porta a rivolgersi con urgenza in strutture di primo soccorso) e contestualizzato alla luce della specifica situazione in chiave psicologica, onde evitare l’instaurarsi della paura della paura.
Non sarà un caso in questo senso che studi confermano nella terapia cognitivo comportamentale la terapia di elezione per un disturbo d’ansia. Sembrerebbe che la terapia in questione inoltre faccia la differenza sostanziale rispetto a una terapia integrata o peggio rispetto a una terapia esclusivamente farmacologica, anche e soprattutto nella remissione del disturbo a lungo termine.
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